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Giampiero Marcocci fa apparire, da profondità marine dalle sfumature color smeraldo, una figura sospesa in uno spazio dalle viscosità amniotiche. Il corpo vestito da miriadi di microbollicine rivela la tensione propulsiva propria di ogni ascensione. L’uomo si protende verso la luce in un concerto di movimenti fatto di slanci danzanti, assecondando una ormai prossima emersione. La figura è il figlio di Ulisse, Telemaco: colui che sprofondava nel desiderio di riabbracciare il padre; che si avventura per mare, affrontando le incognite di un periglioso viaggio alla ricerca del proprio genitore e per ritrovarsi. Incalzato dalla furia brutale dei Proci, egli vive l’attesa del padre, mai conosciuto, in modo spasmodico e invoca il suo ritorno, pregando che il caos che regna ad Itaca possa essere sconfitto da colui che reputa in grado di reinsediare l’armonia perduta.

L’immagine di Giampiero Marcocci diventa esemplare metafora di questa riemersione verso la luce affrontata da Telemaco il quale non si concede nessuna vena malinconica, nessun furore accecante e nefasto, asseconda, invece, l’dea che “qualcosa dal mare torna sempre”.

Il figlio omerico ha trovato nuovo vigore e significato quando Massimo Recalcati, mirabilmente ne Il complesso di Telemaco, lo ha fatto assurgere a figura centrale e attiva, in grado di soppiantare le figure di Edipo e Narciso dal classico orizzonte analitico. Telemaco è portatore di uno struggente desiderio rivolto, con sguardo interrogante ma colmo di speranza, verso le immense distese del mare. Il figlio che può essere il giusto erede, pronto a “sprofondare nel proprio passato non per ritrovare le proprie origini ma per risalire, per riemergere da esse”.

Dalla prima immagine, resa vibrante da un lightbox, prende avvio la recente ricerca del fotografo, concentrata su una serie di marine dalle quali emergono silhouettes di isole, scogli inospitali, svettanti costoni pietrificati, anfratti rocciosi di baie solitarie e ventose. Isole come miraggi, evocate dal desiderio di un altrove. Luoghi rivestiti di colori pallidi e tenui; visioni e orizzonti ammantati di nebbie impalpabili dai riverberi perlacei.

Un percorso che diventa un viaggio poetico per cogliere, usando le parole di Angelo Arioli nel suo Isolario arabo medioevale, “visioni, fantasticherie, miraggi che delineano la terra sul filo dell’orizzonte”.

Le isole diventano il punto d’approdo del vagabondare ed esprimono i desideri inconsci di un rifugio dove dimorare al riparo dei flutti impetuosi della ricerca avventurosa. Se all’inizio Telemaco guarda il mare dalla rassicurante spiaggia, dove cielo e mare trovano una confluenza stabile rispetto all’ignoto, successivamente affronta il pericolo insito in ogni gesto che sceglie la magia primitiva della scoperta di mondi lontani.

Il viaggio descritto da Marcocci – con le sue isole che appaiono e scompaiono, Borondon, dove si odono urla strazianti di regine tradite, Martana; infestate da serpenti, Queimada; colonizzate da gatti, Tashirojima; visitate da angeli, Bergeggi; punti d’approdo nel peregrinare dell’eroe omerico, Ciclopi, Circeo, Canarie, Eolie, Itaca – diventa un percorso iniziatico dove mitologia e topografia contemporanea si intrecciano.

L’autore esprime, così, il desiderio di un orizzonte pacificato che invita all’attesa, ma anche allo slancio verso nuove avventure: un doppio movimento di cui l’arte è testimonianza diretta.

 

Testo di Umberto Palestini

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