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Documentary

Giampiero Marcocci è riuscito ad affrontare con sobria e severa intensità iconica uno dei problemi più gravi (e troppo spesso ignorati) che affliggono il mondo del lavoro: quello degli infortuni e degli incidenti accaduti in gravi condizioni di rischio causate troppo spesso dal mancato rispetto delle più elementari norme di sicurezza, con una colpevole negligenza che ha causato di recente alcuni casi di ingiustificabile degrado e di assoluta crudeltà dove sono state ignorate le più elementari regole della civiltà, della pietà e del rispetto.

Marcocci ha utilizzato il consapevole linguaggio mediatico di immagini fotografiche di grande capacità comunicativa derivata però da un meditato lavoro “concettuale” che allontana gli scatti dell’autore dall’ordinaria dimensione di cronaca o di pura denuncia.

Marcocci ha scelto con sagacia di utilizzare un doppio piano di lettura e di costruzione dell’opera, due dimensioni che prevedono un rapporto “attivo” tra alcuni ritratti di lavoratori e una serie di foto che compongono una vera e propria sequenza “in soggettiva” degli operai all’interno dei cantieri.

Nelle immagini che raffigurano i volti degli uomini con i loro strumenti, l’artista ha deciso infatti di isolare i soggetti dal contesto mediante l’utilizzo di un fondo bianco: una sorta di filtro mentale che mette in risalto l’essenza psicologica e fisica dei lavoratori, la loro presenza quasi scultorea che il fotografo coglie con una qualità icastica quasi “classica”, ma che non contiene assolutamente nessun elemento di sentimentalismo o di magniloquenza celebrativa. L’obiettivo di Marcocci, con la sua visione plastica e sintetica, riduce pertanto al minimo i particolari delle sue foto per dare risalto ai suoi personaggi, fa spiccare la nobiltà dei loro attrezzi e dei loro abbigliamenti, scava nelle loro rughe e nei loro sguardi per mettere in evidenza la sacralità millenaria del lavoro e dei suoi protagonisti, scolpisce la loro pelle e i loro muscoli per scoprire i segni della fatica, incontra nei loro occhi la dignità di uomini ancora in lotta per imporre i propri diritti.

Il secondo grande “capitolo” di quest’ampia installazione è rappresentato poi dalle immagini parzialmente sfocate dei cantieri, che l’artista tratta con una concezione allo stesso tempo dinamica e psicologica, con una rappresentazione dove è implicito un senso di insidia e di incertezza fondato sul rilievo dato agli utensili e alle impalcature, a particolari apparentemente trascurabili come secchi, guanti, scarpe, carriole o picconi, trasformati in elementi simbolici di una narrazione sospesa dove l’uomo spicca per la sua assenza.

Marcocci elabora in questo modo, quasi come un regista, il clima di instabilità e di insicurezza che grava su questi scenari, calcolando con cura le parti da lasciare confuse e quelle da far emergere come lacerti emblematici di un panorama immerso nella nebbia, frammenti allusivi ad un’emergenza imminente che si fanno strada attraverso un velo indistinto.

Con un gioco di spostamenti concettuali e di “ribaltamenti” ottici, l’artista fa coincidere sapientemente il nostro sguardo con quello di un operaio su cui grava una minaccia nascosta, mette in crisi le nostre certezze per trascinarci nelle incognite quotidiane che incombono su troppi uomini.

Con l’intensa sintesi di un progetto che riesce ad essere allo stesso tempo complesso nei contenuti ed efficace nella sua elaborata “semplicità”, basilare per trasmettere a tutti un messaggio così importante, Giampiero Marcocci ha lasciato il suo segno partecipe di uomo e di autore coinvolto nella “verità” dura e sanguinante di un mondo che può ancora avere bisogno delle risposte dell’arte, della sua capacità di scavare dietro le apparenze mediocri e fugaci che appaiono dominanti nella percezione collettiva, in un’opera che, con la sua energia, ci aiuta a non dimenticare un massacro silenzioso, imponendo l’esigenza morale di un lavoro giusto e sicuro che possa finalmente evitare la disperazione di troppe tragedie senza nome.

 

Testo di Lorenzo Canova

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