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La nebbia che ammanta il reale di un velo sognante, si trova in quest’opera di Giampiero Marcocci. L’autore rinnega la presunta istantaneità del mezzo fotografico per farlo regredire verso una sorta di archeologia del tempo fo-tografico. Egli sottopone i suoi modelli a lunghi tempi di posa che generano necessariamente effetti di sdoppiamento. Le sue immagini sono debitrici del pittorialismo di Margaret Cameron, di cui il fotografo è estimatore; ma guardandoli con attenzione, i suoi ritratti si ammantano della sacralità dei personaggi di Tarkovskij o degli enigmi esistenziali espressi da Kieslowski. Le sue donne si tramutano in presenze originate dalla notte, mentre sui loro volti si staglia febbrile la tensione di un viaggio di redenzione verso l’assoluto; il sacro, nella rappresentazione di Marcocci, è uno strumento che orienta le spiritualità in cerca di approdo verso le dimore dell’essere.

 

Testo di Umberto Palestini

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